Anche in Occidente i diritti dell’essere umano sono sempre più carta straccia. Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del Trattato di Prüm, sottoscritto da sette Stati membri il 27 luglio 2005, e ratificato dal Parlamento italiano, con la Legge n. 85 del 30 giugno 2009.
In ossequio alle dottrine autoritarie Usa, nonché ai Trattati di Velsen e di Lisbona -approvati in tutta fretta dai parlamentari di stanza a Bruxelles e Strasburgo (compresa Sonia Alfano che tiene conferenze pubbliche con Forza Nuova, sponsorizzata in campagna elettorale dal comico eterodiretto Beppe Grillo) senza uno straccio di coinvolgimento popolare, almeno nel belpaese- la libertà risulta sempre più vigilata nel vecchio continente. Di Gianni Lannes Oltre Orwell - il codice ereditario umano è balìa di alcuni Stati europei. Il pretesto è apparentemente nobile: la lotta contro «il terrorismo internazionale, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale» mediante la cooperazione. In sostanza: il Dna (acido desossiribonucleico), viene immagazzinato per 40 anni in una banca dati istituzionale. Lo standard europeo Issol (Interpol Standard Set Of Loci) “aveva inizialmente solo 7 marcatori più amelogenina” spiega l’avvocato Giorgio Ponti “Nell’aprile 2005 è stata decisa l’introduzione di 3 nuovi marcatori ritenuti molto sensibili. Non tutte utilizzano il medesimo standard di archiviazione, anche se la risoluzione del Consiglio E del 9 giugno 1997 ‘invita’ gli Stati membri alla realizzazione di uno standard comune. La più affollata banca dati europea è quella inglese con 3 milioni di profili”.
La legge numero 85, promulgata il 30 giugno 2009, a firma del Presidente Giorgio Napolitano, nonché del premier Silvio Berlusconi e dei Ministri Franco Frattini, Roberto Maroni e Angelino Alfano, nel disinteresse generale si intitola appunto «Adesione della Repubblica italiana al Trattato concluso il 27 maggio 2005 tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, relativo all’approfondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale (Trattato di Prum). Istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA. Delega al governo per l’istituzione dei ruoli tecnici del Corpo di Polizia penitenziaria. Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale». Genesi - Il primo progetto di legge per la regolamentazione del prelievo coattivo risale al 1998: l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick (del Governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi) presentò al Senato, il 20 gennaio, un disegno di legge (disegno di legge n° 3009 rubricato sotto il nome di «Disciplina dei prelievi di campioni biologici e degli accertamenti medici coattivi nel procedimento penale» ) che non è mai arrivato a divenire Legge dello Stato. L’Italia, che non era tra gli Stati promotori dell’accordo di Prum, il 4 luglio 2006, a Berlino, nella persona dell’allora Ministro degli Interni, Giuliano Amato, ha sottoscritto, insieme al collega tedesco, Wolfgang Schaueble, una dichiarazione congiunta sull’ingresso dell’Italia nel Trattato di Prüm. L’articolo 5 recita una garanzia al di sopra di ogni sospetto: «presso il Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, è istituita la banca dati nazionale del DNA. Presso il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è istituito il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA». Ad ogni buon conto i danni sono a responsabilità limitata, infatti, l’artico 4 dispone inequivocabilmente: «quando agenti di una Parte contraente operano nel territorio nazionale, lo Stato italiano provvede al risarcimento dei danni causati dal personale straniero limitatamente a quelli derivanti dallo svolgimento delle attività svolte conformemente al medesimo Trattato». Compresi i minori - Chi sono le prime cavie oggetto della normativa? L’articolo 9 stabilisce: «i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari; i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto; i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva». La legge non risparmia i bambini. L’articolo 29 dispone il «Prelievo di campioni biologici e accertamenti medici su minori e su persone incapaci o interdette». Un abominio? L’ennesimo abuso di potere? Oppure ordinaria amministrazione? «Il prelievo coattivo è vincolato oggettivamente nel senso che può aver ad oggetto solo il materiale indicato in via alternativa dal legislatore: saliva o capelli; la soglia massima dell’intervento fisico sull’indagato che non consente è un prelievo di saliva o capelli autorizzato dal pm - puntualizza l’esperta Paola Felicioni, autrice del saggio Accertamenti sulla persona e processo penale (Ipsoa 2007) - Occorre chiedersi qual è la disposizione che trova applicazione in un’ipotesi di tal fatta in cui non sussiste l’urgenza dell’intervento della polizia giudiziaria sulle persone, diversi dalle ispezioni personali, possa essere compiuto un rilievo-prelievo di “materiale biologico”». La Corte Costituzionale con la sentenza numero 238, risalente al 9 luglio 1996, aveva già chiarito la «genericità del potere conferito al Giudice di emettere un provvedimento coattivo per assicurare il compimento della perizia: non sono infatti indicati i “casi” e i “modi” del prelievo coattivo da persona vivente: carenza di precisazione circa la natura e la possibilità di estensione della coazione; incompatibilità di tale “genericità” con i principi dell’articolo 13 della Costituzione, che richiede, per tutti gli atti di restrizione della libertà personale, una duplice garanzia: la riserva di legge “nei soli casi e modi previsti dalla legge”, e la riserva di Giurisdizione “atto motivato dall’autorità Giudiziaria”». L’articolo 1 (comma 4) del Trattato di Prüm prevede addirittura che «Entro e non oltre tre anni dall’entrata in vigore sarà presentata una iniziativa in previsione della trascrizione delle disposizioni del presente trattato nell’ambito giuridico dell’Unione europea». Fedele nei secoli - Ma a chi? Senza voler scomodare le rivelazioni del generale in pensione Nicolò Bozzo, braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa -“cercare di spiegare perché l’anima nera, presente nell’Arma come del resto altrove, abbia potuto affermarsi a scapito dei valori più autentici”- dopo i 70 milioni e passa di fascicoli custoditi illegalmente dall’Arma dei carabinieri su italiane e italiani, vicenda emersa qualche tempo fa grazie alla coraggiosa denuncia di un sottufficiale, subito messo a tacere, siamo infine, ai prelievi biologici sul corpo umano. In altri termini, siamo tutti un po’ meno liberi per ragioni di ‘sicurezza’. Esiste già da un bel pezzo l’archivio delle tracce biologiche raccolte attraverso le perizie delle forze dell’ordine e nei prelievi su indagati. In un unico data-base, affidato alla gestione di un apposito organismo (Ris dell’Arma, in seguito Eurogendfor, la super polizia militare europea), vengono catalogati con un sistema di codici a barre tutti i campioni raccolti. L’enorme mole di informazioni è custodita all’interno di un sistema informatico controllato a più livelli e accessibile solo dai diversi gradi dell’autorità giudiziaria. Rispetto al passato, la novità fondamentale è nella possibilità di confrontare i campioni in tempo reale attraverso un software speciale. Attualmente, infatti, ogni campione di Dna rimane confinato all’interno del procedimento giudiziario in cui è stato raccolto, rendendo solo incidentali i confronti. In realtà, la creazione di una banca dati copre il vuoto legislativo che ha consentito la nascita di archivi istituzionali al di fuori della legalità. Come, ad esempio, quello del Ris carabinieri di Parma, che custodisce migliaia di campioni biologici. L’archivio segreto dell’Arma è stato casualmente svelato durante un processo per furto in cui l’imputato ha scoperto che il proprio Dna veniva da anni conservato -violando la normativa sulla privacy- dagli uomini del reparto investigativo scientifico. Controllo generale - Basta essere fermati per una verifica di routine per finire nel cervellone del Viminale anche senza aver commesso reati. L’anno scorso 15 milioni e passa di cittadine e cittadinid’Italia sono stati inseriti nell’archivio delle forze dell’ordine. Ma non è tutto nell’era del grande fratello militare. Siete in auto con il vostro amante o con la campagna di università il giorno in cui avete marinato le lezioni. Una volante della Polizia o una pattuglia dei Carabinieri (ma anche della Guardia di Finanza o della Forestale e della Polizia Penitenziaria) vi intima l’alt per un normale controllo. Voi esibite i documenti, il vostro accompagnatore pure. Tutto in regola. “Prego potete andare”, vi dicono cortesi gli operatori delle forze dell’ordine. Siete tranquilli, in fondo il vostro “peccato” non è (ancora) reato, e alla polizia che gliene importa se voi avete l’amante o non siete andati a scuola? Tornate a casa dopo esservi ricomposti (o ritruccate) e proseguite la vostra vita di tutti i giorni. Ma a vostra insaputa, è scattato un meccanismo infernale di controllo, denominato ‘Sistema di indagine’ (Sdi) dal quale non uscirete più, per il resto dei vostri giorni. E che potrebbe rendervi la vita molto dura, anche se siete un innocuo rappresentante di biancheria intima con qualche indecisione sentimentale. Osserviamo come funziona e soprattutto quali problemi crea questo sistema voluto dall’ex Ministro dell’Interno Enzo Bianco e ampiamente sviluppato dal Ministero dell’Interno. Per comprendere il meccanismo creato da quando lo Sdi ha soppiantato il vecchio Centro elaborazione dati (Ced), occorre fare un passo indietro e vedere come operava fino al 2000 il cosiddetto cervellone del Viminale, sede del Ministero dell’Interno. Fino a qualche anno fa la verifica della vostra autovettura e dei vostri documenti finiva nelle statistiche numeriche delle attività di controllo del territorio. In passato, infatti, il vostro nome veniva iscritto nel cervellone solo in caso di arresto o denuncia, per un qualsiasi reato; oppure se presentavate un esposto per lo smarrimento dei documenti. Nel 2001, secondo i dati del Viminale, furono denunciate dalle forze dell’ordine 152.399 persone; ne vennero identificate ai posti di blocco 14.897.666, su 7.870.021 veicoli controllati. Mentre prima dell’entrata in vigore dello Sdi, nel cervellone venivano iscritte solo le 152 mila persone denunciate, oggi invece vengono registrati mediamente 15 milioni di cittadini identificati e assolutamente estranei a qualsiasi imputazione o sospetto e quindi totalmente immacolati. Mentre prima c’erano limitazioni ben precise, oggi tutto confluisce nel calderone di un sistema di indagine che coinvolge alla lunga l’intera popolazione. Privacy inesistente - Secondo il Dipartimento della Pubblica Sicurezza «Il Ced interforze viene regolato dalla legge 121/1981 e dall’articolo 21 della legge 26 marzo 2001, n. 128. Prevede la raccolta, elaborazione, classificazione e conservazione delle informazioni e dei dati in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati e da quelle a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Il Sistema rispetta le norme sulla protezione dei dati, individuando in modo univoco la persona che effettua operazioni di immissione e di interrogazione della Banca dati (mediante uso di password e user Id)». La spiegazione è ineccepibile, ma non esauriente. Il problema non è come e da chi questi dati vengano utilizzati, ma perché vengano raccolti e quali siano le necessità di sicurezza che giustificano l’inserimento del nominativo di un cittadino in una banca dati così delicata per il semplice fatto di essere stato identificato dalle forze dell’ordine. Schedature di massa - Il controllo del territorio ha a che vedere con la prevenzione, quell’attività che si fa per impedire i reati e che consiste nel fermare delle persone nella ipotesi che qualcuna di queste possa essere un latitante o un trafficante di droga. Secondo quanto prevede la normativa in vigore, invece, questa routine è stata inserita nel più complesso sistema d’indagine, trasformandosi in un’attività investigativa a carico di cittadini ignari di questa schedatura. Con la legittima giustificazione di operare una prevenzione dei reati, si è creata una schedatura di massa dove sono già inclusi, a loro insaputa, milioni di cittadini. Nella lista dei potenziali ‘cattivi’, dove una volta finivano solo quelli indagati o condannati, adesso ci sono anche quelli colpevoli solo di essere stati identificati. Dal Ministero spiegano: «Il compito principale del Sistema informativo Interforze è senz’altro quello della raccolta e gestione di tutti i dati e le informazioni che derivano dalle attività di prevenzione e repressione dei reati. Il Sistema di Indagine Sdi, richiedendo la raccolta delle informazioni là dove sorgono, prevede l’alimentazione da parte di tutti gli uffici segnalanti e dai relativi operatori». Il che tradotto vuol dire: non solo la Polizia, ma anche gli altri corpi raccolgono le notizie e le inseriscono nel sistema. Precisazione che, invece di tranquillizzare, preoccupa ancora di più. Nessuno dovrebbe detenere informazioni sulle frequentazioni, sulle abitudini e quant’altro di un singolo cittadino, a meno che non vi sia un’esplicita richiesta della magistratura, per indagini. E sembra chiaro che nessun giudice può aver autorizzato indagini su milioni di cittadini italiani. C’è poi da chiedersi se il Garante della privacy non abbia nulla da dire sul fatto che annualmente una media di 15 milioni di cittadini, senza aver commesso alcun reato, vengono schedati e inseriti in un cervellone che, da qui all’eternità, potrà documentare ove erano alla tal ora, di tale giorno e con chi. Si dice che dall’11 settembre del 2001, siamo tutti un pò meno liberi, per ragioni di sicurezza. In realtà la genesi dello Sdi è antecedente alla tragedia di New York e porta la firma di entrambi gli schieramenti politici. Di Gianni Lannes
La legge numero 85, promulgata il 30 giugno 2009, a firma del Presidente Giorgio Napolitano, nonché del premier Silvio Berlusconi e dei Ministri Franco Frattini, Roberto Maroni e Angelino Alfano, nel disinteresse generale si intitola appunto «Adesione della Repubblica italiana al Trattato concluso il 27 maggio 2005 tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, relativo all’approfondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale (Trattato di Prum). Istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA. Delega al governo per l’istituzione dei ruoli tecnici del Corpo di Polizia penitenziaria. Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale». Genesi - Il primo progetto di legge per la regolamentazione del prelievo coattivo risale al 1998: l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick (del Governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi) presentò al Senato, il 20 gennaio, un disegno di legge (disegno di legge n° 3009 rubricato sotto il nome di «Disciplina dei prelievi di campioni biologici e degli accertamenti medici coattivi nel procedimento penale» ) che non è mai arrivato a divenire Legge dello Stato. L’Italia, che non era tra gli Stati promotori dell’accordo di Prum, il 4 luglio 2006, a Berlino, nella persona dell’allora Ministro degli Interni, Giuliano Amato, ha sottoscritto, insieme al collega tedesco, Wolfgang Schaueble, una dichiarazione congiunta sull’ingresso dell’Italia nel Trattato di Prüm. L’articolo 5 recita una garanzia al di sopra di ogni sospetto: «presso il Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, è istituita la banca dati nazionale del DNA. Presso il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è istituito il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA». Ad ogni buon conto i danni sono a responsabilità limitata, infatti, l’artico 4 dispone inequivocabilmente: «quando agenti di una Parte contraente operano nel territorio nazionale, lo Stato italiano provvede al risarcimento dei danni causati dal personale straniero limitatamente a quelli derivanti dallo svolgimento delle attività svolte conformemente al medesimo Trattato». Compresi i minori - Chi sono le prime cavie oggetto della normativa? L’articolo 9 stabilisce: «i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari; i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto; i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva». La legge non risparmia i bambini. L’articolo 29 dispone il «Prelievo di campioni biologici e accertamenti medici su minori e su persone incapaci o interdette». Un abominio? L’ennesimo abuso di potere? Oppure ordinaria amministrazione? «Il prelievo coattivo è vincolato oggettivamente nel senso che può aver ad oggetto solo il materiale indicato in via alternativa dal legislatore: saliva o capelli; la soglia massima dell’intervento fisico sull’indagato che non consente è un prelievo di saliva o capelli autorizzato dal pm - puntualizza l’esperta Paola Felicioni, autrice del saggio Accertamenti sulla persona e processo penale (Ipsoa 2007) - Occorre chiedersi qual è la disposizione che trova applicazione in un’ipotesi di tal fatta in cui non sussiste l’urgenza dell’intervento della polizia giudiziaria sulle persone, diversi dalle ispezioni personali, possa essere compiuto un rilievo-prelievo di “materiale biologico”». La Corte Costituzionale con la sentenza numero 238, risalente al 9 luglio 1996, aveva già chiarito la «genericità del potere conferito al Giudice di emettere un provvedimento coattivo per assicurare il compimento della perizia: non sono infatti indicati i “casi” e i “modi” del prelievo coattivo da persona vivente: carenza di precisazione circa la natura e la possibilità di estensione della coazione; incompatibilità di tale “genericità” con i principi dell’articolo 13 della Costituzione, che richiede, per tutti gli atti di restrizione della libertà personale, una duplice garanzia: la riserva di legge “nei soli casi e modi previsti dalla legge”, e la riserva di Giurisdizione “atto motivato dall’autorità Giudiziaria”». L’articolo 1 (comma 4) del Trattato di Prüm prevede addirittura che «Entro e non oltre tre anni dall’entrata in vigore sarà presentata una iniziativa in previsione della trascrizione delle disposizioni del presente trattato nell’ambito giuridico dell’Unione europea». Fedele nei secoli - Ma a chi? Senza voler scomodare le rivelazioni del generale in pensione Nicolò Bozzo, braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa -“cercare di spiegare perché l’anima nera, presente nell’Arma come del resto altrove, abbia potuto affermarsi a scapito dei valori più autentici”- dopo i 70 milioni e passa di fascicoli custoditi illegalmente dall’Arma dei carabinieri su italiane e italiani, vicenda emersa qualche tempo fa grazie alla coraggiosa denuncia di un sottufficiale, subito messo a tacere, siamo infine, ai prelievi biologici sul corpo umano. In altri termini, siamo tutti un po’ meno liberi per ragioni di ‘sicurezza’. Esiste già da un bel pezzo l’archivio delle tracce biologiche raccolte attraverso le perizie delle forze dell’ordine e nei prelievi su indagati. In un unico data-base, affidato alla gestione di un apposito organismo (Ris dell’Arma, in seguito Eurogendfor, la super polizia militare europea), vengono catalogati con un sistema di codici a barre tutti i campioni raccolti. L’enorme mole di informazioni è custodita all’interno di un sistema informatico controllato a più livelli e accessibile solo dai diversi gradi dell’autorità giudiziaria. Rispetto al passato, la novità fondamentale è nella possibilità di confrontare i campioni in tempo reale attraverso un software speciale. Attualmente, infatti, ogni campione di Dna rimane confinato all’interno del procedimento giudiziario in cui è stato raccolto, rendendo solo incidentali i confronti. In realtà, la creazione di una banca dati copre il vuoto legislativo che ha consentito la nascita di archivi istituzionali al di fuori della legalità. Come, ad esempio, quello del Ris carabinieri di Parma, che custodisce migliaia di campioni biologici. L’archivio segreto dell’Arma è stato casualmente svelato durante un processo per furto in cui l’imputato ha scoperto che il proprio Dna veniva da anni conservato -violando la normativa sulla privacy- dagli uomini del reparto investigativo scientifico. Controllo generale - Basta essere fermati per una verifica di routine per finire nel cervellone del Viminale anche senza aver commesso reati. L’anno scorso 15 milioni e passa di cittadine e cittadinid’Italia sono stati inseriti nell’archivio delle forze dell’ordine. Ma non è tutto nell’era del grande fratello militare. Siete in auto con il vostro amante o con la campagna di università il giorno in cui avete marinato le lezioni. Una volante della Polizia o una pattuglia dei Carabinieri (ma anche della Guardia di Finanza o della Forestale e della Polizia Penitenziaria) vi intima l’alt per un normale controllo. Voi esibite i documenti, il vostro accompagnatore pure. Tutto in regola. “Prego potete andare”, vi dicono cortesi gli operatori delle forze dell’ordine. Siete tranquilli, in fondo il vostro “peccato” non è (ancora) reato, e alla polizia che gliene importa se voi avete l’amante o non siete andati a scuola? Tornate a casa dopo esservi ricomposti (o ritruccate) e proseguite la vostra vita di tutti i giorni. Ma a vostra insaputa, è scattato un meccanismo infernale di controllo, denominato ‘Sistema di indagine’ (Sdi) dal quale non uscirete più, per il resto dei vostri giorni. E che potrebbe rendervi la vita molto dura, anche se siete un innocuo rappresentante di biancheria intima con qualche indecisione sentimentale. Osserviamo come funziona e soprattutto quali problemi crea questo sistema voluto dall’ex Ministro dell’Interno Enzo Bianco e ampiamente sviluppato dal Ministero dell’Interno. Per comprendere il meccanismo creato da quando lo Sdi ha soppiantato il vecchio Centro elaborazione dati (Ced), occorre fare un passo indietro e vedere come operava fino al 2000 il cosiddetto cervellone del Viminale, sede del Ministero dell’Interno. Fino a qualche anno fa la verifica della vostra autovettura e dei vostri documenti finiva nelle statistiche numeriche delle attività di controllo del territorio. In passato, infatti, il vostro nome veniva iscritto nel cervellone solo in caso di arresto o denuncia, per un qualsiasi reato; oppure se presentavate un esposto per lo smarrimento dei documenti. Nel 2001, secondo i dati del Viminale, furono denunciate dalle forze dell’ordine 152.399 persone; ne vennero identificate ai posti di blocco 14.897.666, su 7.870.021 veicoli controllati. Mentre prima dell’entrata in vigore dello Sdi, nel cervellone venivano iscritte solo le 152 mila persone denunciate, oggi invece vengono registrati mediamente 15 milioni di cittadini identificati e assolutamente estranei a qualsiasi imputazione o sospetto e quindi totalmente immacolati. Mentre prima c’erano limitazioni ben precise, oggi tutto confluisce nel calderone di un sistema di indagine che coinvolge alla lunga l’intera popolazione. Privacy inesistente - Secondo il Dipartimento della Pubblica Sicurezza «Il Ced interforze viene regolato dalla legge 121/1981 e dall’articolo 21 della legge 26 marzo 2001, n. 128. Prevede la raccolta, elaborazione, classificazione e conservazione delle informazioni e dei dati in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati e da quelle a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Il Sistema rispetta le norme sulla protezione dei dati, individuando in modo univoco la persona che effettua operazioni di immissione e di interrogazione della Banca dati (mediante uso di password e user Id)». La spiegazione è ineccepibile, ma non esauriente. Il problema non è come e da chi questi dati vengano utilizzati, ma perché vengano raccolti e quali siano le necessità di sicurezza che giustificano l’inserimento del nominativo di un cittadino in una banca dati così delicata per il semplice fatto di essere stato identificato dalle forze dell’ordine. Schedature di massa - Il controllo del territorio ha a che vedere con la prevenzione, quell’attività che si fa per impedire i reati e che consiste nel fermare delle persone nella ipotesi che qualcuna di queste possa essere un latitante o un trafficante di droga. Secondo quanto prevede la normativa in vigore, invece, questa routine è stata inserita nel più complesso sistema d’indagine, trasformandosi in un’attività investigativa a carico di cittadini ignari di questa schedatura. Con la legittima giustificazione di operare una prevenzione dei reati, si è creata una schedatura di massa dove sono già inclusi, a loro insaputa, milioni di cittadini. Nella lista dei potenziali ‘cattivi’, dove una volta finivano solo quelli indagati o condannati, adesso ci sono anche quelli colpevoli solo di essere stati identificati. Dal Ministero spiegano: «Il compito principale del Sistema informativo Interforze è senz’altro quello della raccolta e gestione di tutti i dati e le informazioni che derivano dalle attività di prevenzione e repressione dei reati. Il Sistema di Indagine Sdi, richiedendo la raccolta delle informazioni là dove sorgono, prevede l’alimentazione da parte di tutti gli uffici segnalanti e dai relativi operatori». Il che tradotto vuol dire: non solo la Polizia, ma anche gli altri corpi raccolgono le notizie e le inseriscono nel sistema. Precisazione che, invece di tranquillizzare, preoccupa ancora di più. Nessuno dovrebbe detenere informazioni sulle frequentazioni, sulle abitudini e quant’altro di un singolo cittadino, a meno che non vi sia un’esplicita richiesta della magistratura, per indagini. E sembra chiaro che nessun giudice può aver autorizzato indagini su milioni di cittadini italiani. C’è poi da chiedersi se il Garante della privacy non abbia nulla da dire sul fatto che annualmente una media di 15 milioni di cittadini, senza aver commesso alcun reato, vengono schedati e inseriti in un cervellone che, da qui all’eternità, potrà documentare ove erano alla tal ora, di tale giorno e con chi. Si dice che dall’11 settembre del 2001, siamo tutti un pò meno liberi, per ragioni di sicurezza. In realtà la genesi dello Sdi è antecedente alla tragedia di New York e porta la firma di entrambi gli schieramenti politici. Di Gianni Lannes
Fonte: Su La Testa!
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